
Albergo R., 10 marzo, ore 5 ½. È l’ora : il treno parte alle sei e mezzo. I galli, (anche qui ! Ma questi me gli immagino pigiati in una stia in qualche bottega di pollaiolo), i galli sono già svegli da un pezzo e cantano alla lontana con voci roche senza ripigliar fiato.
Nella strada ho già sentito il lattaio bussare a una porta tremendamente, e uno spazzino strusciar la granata sulle lastre : la campana del Duomo ha sonato, e passa ogni tanto qualche fiacchere, portando probabilmente gente al mio treno.
Per lo spiraglio della finestra vedo la luce azzurrastra dell’alba. Bisogna levarsi. Giro il bottone elettrico, e, i piedi nudi sul tappeto spelacchiato e sabbioso di questa cameruccia, dove non c’è posto neanche per bestemmiare, mi metto a diguazzare in una catinella che pare una ciotola, cercando invano di rinfrescarmi un po’ il corpo.
Mentre mi accomodo la cravatta, leggo sul muro roseo a fiorellini bianchi e verdi, accanto allo specchio, questo verso scritto col lapis :
In questa picciol camera sognai.
La calligrafìa è spedita, corretta, ben formata, commerciale, e rivela la mano di un commesso viaggiatore. Sempre poeti, questi accidenti ! — Lascio Firenze.
[…]
( Ardengo Soffici, “Firenze”, brano tratto dal racconto “Firenze-Parigi” contenuto nel libro “Arlecchino”, Vallecchi Editore Firenze, 1921 )
L’ha ribloggato su Food Wine Worlde ha commentato:
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