[…] «Bravo, bravo Gostino ! posa costì sulla tavola e mesci al signore», disse il sor Cosimo a Gostino che in quel momento entrò con una bottiglia e un vassoio di bicchieri.
«Sentirà che questo gli garba», mi disse Gostino mescendomi. «Le fanno appassire loro l’uve ?»
«Andate, andate, Gostino», gli disse la signora Olimpia.
«Lesto, Gostino», continuò il sor Cosimo, «andate a prendere du’ altre bottiglie: una del ’62 sulla tavola di cantina fonda e un’altra del ’59 (l’anno della rivoluzione !) e sentirà», rivolgendosi di nuovo a me, «sentirà che come quello, non per fargli torto, ma come quello lei non n’ha mai bevuto.»
«Ma… mi basta questo, signor Cosimo.»
«’Gnamo, ‘gnamo: smettiamo coi complimenti… Intanto un altro gocciolino di questo, eh ?»
«Grazie: non lo potrei bere, signor Cosimo. Non sono abituato…»
«Guardi, ne ripiglio anch’io: per compagnia prese moglie un frate… Glielo mesco ?… Lo butti via, ma glielo mesco.»
«E allora, se vuole così, me ne dia un altro sorso per gradire… Basta… basta così…»
«Nossignore ! o pieno o nulla.»
Ritornò Gostino con altre due bottiglie, e allora mi furon tutti addosso, cominciando dalla signora Flavia e non escluso il servitore stesso, perché assaggiassi anche di quelle.
Il signor Cosimo mi reggeva il braccio. Cosimo mesceva, e le due donne mi scongiuravano con gli occhi perché non volessi far loro il torto di rifiutare quella gentilezza.
Resistei un poco; ma finalmente mi toccò a cedere, ed ebbi la malaventura di lodarne la qualità e d’osservare che non solamente dovevano avere uve squisite, ma anche vasi e cantine eccellenti.
Non l’avessi mai detto !
«Gliele voglio far vedere», disse subito il sor Cosimo. M’infilò a braccetto, e, lasciate le donne in salotto, con Gostino avanti che ci faceva lume, mi trascinò in cantina, ora dicendomi «badi, c’è un altro scalino», ora «abbassi il capo», e mostrandosi finalmente più maravigliato di me di quella bellezza, la quale non era altro che una stanza tutta ragnateli, con quattro botti a una parete e due caratelli in un angolo.
Bisognò che mi maravigliassi e che lodassi anch’io qualche cosa, e lodai, giudicandone dai muri di fondamento, la solidità della casa.
«Ora gliela faccio vedere.»
Dalla cantina si risalì al piano terreno che mi fece girar tutto: salotto da pranzo, stanza da stirare, cucina, forno, dispensa, armadi a muro… Eppoi la scala nuova che prima era dove ora è la coppaia; eppoi lo scrittoio che il su’ fratello prete lo voleva fare dove ci levarono la stalla, ma che c’era umido… Eppoi su al primo piano dove mi fece entrare di sorpresa nella camera della sora Olimpia che era allo specchio a provarsi la mantiglia color pulce. E via, tutte le altre camere, la sala, i salotti e perfino i due luoghi di comodo, che uno bisognava che lo levassero perché dava noia al pozzo… «Ora guardi che occhiata !… e quello è l’orto. Dopo s’anderà anche lì; ma prima gli voglio far vedere anche il secondo piano.»
Andammo anche al secondo piano; e dopo avermi fatto girare una ventina di minuti, illustrandomi ogni stanza con gli avvenimenti più notevoli in quelle accaduti, dallo stanzone dove fanno i bachi allo stambugio dove il Cappellano mette in chiusa i fringuellotti da accecarsi, si fermò davanti a una porta per la quale, facendomi prima alcuni segnali che volevano prepararmi ad ammirare qualche cosa di veramente straordinario, il sor Cosimo m’introdusse in una cameruccia disfatta, dicendomi che indovinassi chi ci aveva dormito la settimana passata.
«Che vòl che sappia, caro lei ?»
«Gliela do in mille… Nientemeno che il sor Angiolo !!»
«Andiamo !», esclamai, così per dare un po’ di soddisfazione ai suoi entusiasmi ! E lui, presa sul serio la mia esclamazione, mi tessé sul tamburo il panegirico del sor Angiolo, il quale era, nientemeno che il fratello dell’arciprete Dòdoli e nipote del benemerito signor Canonico Sinigaglia, che era venuto con lui quando Monsignore lo mandò a fare i saldi alla fattoria delle Monache !…
«Ha capito ?… E ora deve vedere anche la piccionaia… Sta’ !… Si vedrà poi, perché ora non c’è tempo da perdere. Sòna l’entrata e bisogna far presto, perché la messa cantata dell’undici la dice il Proposto delle Sièpole che è il Dio della furia. Bon omo, però, veh ! Ah ! E con lui ci troverebbe il su’ pascolo anche lei perché, chieda e domandi, lui sa ogni cosa. Ne parli anche colla mi’ sorella… qui ci dorme Gostino !… e sentirà che razza di talento è quello… E qui, vede ? Prima c’era un uscio che metteva nel granaio; ma si fece chiudere per via de’ topi. Poi gli farò vedere ogni cosa: ma ora bisogna andare, se no s’arriva che è entrata.»
[…]
(Renato Fucini, brano tratto da “Scampagnata”, in “Le veglie di Neri: paesi e figure della campagna Toscana”, 1882)