
[…] In fondo alle scale c’incontrammo col Cappellano che tutto sbuffante tornava dalla tesa, brontolando della furia del Proposto.
«Che aveva paura di non essere a tempo a desinare, quello strippone ? Avviatevi, Cosimo, fatemi il santo servizio, accidenti a questi lavori ! e ditegli che si parino intanto loro e che io fra dieci minuti vengo; se no, se la cantino da sé e non mi scoccino…»
«Vede ?», mi disse il sor Cosimo, «lui è sempre a quella maniera. Quando non piglia uccelli diventa una bestia. Venga, venga; queste donne verranno da sé.»
«Son bell’e andate, sor padrone», disse Gostino.
«Meglio così. Andiamo.»
E io, che avrei avuto tanto bisogno di sciorinarmi e di riposarmi un momento, mi misi dietro al sor Cosimo che, per paura del fratello, allungava tanto il passo da tenergli dietro a fatica. Attraverso a una caligine grassa di sudore e di moccolaia, osservavo la scena. Nell’emiciclo del coro, i cantori, fra i quali il sor Cosimo, che s’era messo in prima linea a sinistra, per non restare invisibile dietro all’altar maggiore; intorno all’altare, i preti celebranti, imbacuccati nei loro piviali ricamati d’oro che mandavano riflessi abbaglianti secondo che si movevano, percossi da un raggio di sole giallastro e polveroso che da una lunetta semichiusa attraversava in diagonale la chiesa. Poi uno spazio libero, e dopo, due ali di panche per le donne; in mezzo, quattro o sei eleganti alla moda, dal fazzoletto bianco sotto i ginocchi, unti nei capelli e inchiodati nelle scarpe, e in fondo, gli uomini seri, i veri credenti senza ostentazione, le luccicanti zucche pelate, i catarri produttivi, le pezzòle da naso turchine.
La signora Flavia, in una panca separata dentro alla cappella de’ sette dolori, pregava calorosamente con la faccia quasi nascosta nel libro, e la signora Olimpia, che le sedeva alla destra, fantasticava sorridendo angelicamente verso qualche fantasma che pareva attirare i suoi sguardi su nella misteriosa penombra delle navate.
I mantici dell’organo russavano, e dai pieni polmoni scappava fuori, di quando in quando, una nota sola e fuggiasca o un do-re-mi-fa bricconcello che faceva voltare subito lietamente il sor Cosimo verso di me e il Cappellano verso l’organo, con due occhi da basilisco che mettevan terrore.
Le montagne stanno ferme e gli uomini camminano. Quando il sor Cosimo, infilando in fretta l’uscio della Canonica, m’ebbe lasciato sotto il porticato della chiesa, mi dette nell’occhio un uomo decentemente vestito, la cui fisionomia non m’era punto nuova; e nemmeno pareva che la mia fosse nuova a lui, perché nell’incontrarci che facevamo passeggiando in su e in giù, mi ficcava gli occhi in viso e quasi pareva che accennasse a un sorriso amichevole e a rivolgermi la parola. Io facevo altrettanto, quando, passandomi per la terza volta vicino, pronunziò a bassa voce il mio nome: mi venne allora subito in mente il suo, mi voltai e ci abbracciammo con una stretta e un bacio affettuosamente fraterno, che quando ci guardammo negli occhi, li avevamo umidi di lacrime.
«Dopo diciannove anni! O come mai ti trovo qui ?»
«Sono medico di questo comune. E tu ?»
«Son qui per diporto.»
«Verrai a desinare da me.»
«Sono impegnato.»
«Da chi ?»
«Poi se ne parlerà. Ora parliamo di noi; dimmi di te, de’ nostri amici, della tua vita… Ah, perdio ! quanto avrei bisogno di sapere da te, quante notizie da chiederti di tanti vecchi compagni d’Università… e quante avrei da dartene io !» E qui un assalto di domande: «E del tale che ne fu ?… E il tal altro che fa ?… Tizio è vivo ?… Caio dove si trova ?» E quasi ad ogni notizia reciproca corrispondeva una voce di rimpianto e una parola di commiserazione:
«È morto !… È un disgraziato !… Scappò e non se n’è saputo più nulla… È in galera». E raramente: «Sta bene… Vive… È contento».
[…]
(Renato Fucini, brano tratto da “Scampagnata”, in “Le veglie di Neri: paesi e figure della campagna Toscana”, 1882)
….strippone = chi mi sa dire cosa si intende? Grazie.
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Qualcuno che mangia tanto e con avidità.
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