
[…] «E tu come te la passi ?»
«Da medico di campagna.»
«E coi paesani ?»
«Male.»
«Perché ?»
«Non sono una bestia come loro e sono un galantuomo.»
«Ti capisco. E con le autorità locali ?»
«Male. Sono in odio al Sindaco e mi toccherà andarmene presto.»
«La ragione ?»
«Ebbi l’imprudenza di contraddirlo in pubblica farmacia, quando, a proposito di galateo, citò monsignor Della Casa e Flavio Gioia.»
«E chi è questo mostro di sapere ?»
«La più agiata, la più colta, la più rispettabile persona del paese: un certo signor Cosimo…»
«Il mio ospite !»
«Sei da lui ?»
«Sono da lui.»
«O come mai ?… Ma ora, no; dopo desinare verrai a trovarmi, mi racconterai tutto e staremo insieme fino alla tua partenza. Ho molte cose da confidarti, ti accompagnerò alla stazione col mio cavalluccio; ma ora entriamo in chiesa, perché la messa è cominciata… Sorridi ?»
«Penso che diciannove anni indietro un invito simile non mi sarebbe venuto da te.»
«Ho sei figlioli !»
Mi fece strada in chiesa mentre io, standogli alle spalle, osservavo rattristandomi la sua cambiata persona. Quante speranze svanite ! Quante illusioni stavano raggrinzate giù dentro all’anima di quel corpiciattolo smunto, già più che mezzo canuto !… E quel provvidenziale egoismo stillato dalla natura anche nell’animo dei migliori, venne a soccorrermi; e le mie malinconiche riflessioni mi si convertirono in una spasimosa compiacenza confrontandomi con lui.
«Ecco i miei padroni», mi disse sorridendo amaramente, appena ci fummo fermati in un angolo in fondo alla chiesa. «Sono tutti lassù. Conosci nessuno ?»
«La famiglia del signor Cosimo e nessun altro.»
«Merita il conto di presentartene qualcuno, perché son degni della tua attenzione. Non sarebbero cattivi, se non li facesse pessimi la loro ignoranza orgogliosa. Tutti celebri, però ! tutta brava gente; tutti ammirati, perché il resto è più ciuco di loro. Vedi quello che celebra ? è un certo Proposto delle Sièpole. Teologo profondo, negoziante d’oli, confessore delle monache, mangiatore strepitoso e gran protettore delle molte sue nipoti. Non mi vuol bene, ma mi tollera dopo che lo curai d’una indigestione di cacio salato e baccelli.»
Il Proposto delle Sièpole in quel momento sedeva tutto compunto, e dal suo stallo d’onore, stringendosi al petto le braccia incrociate, mandava occhiate e sospiri al cielo.
«E’ vecchiotto però !», osservai.
«Sopra la sessantina. E quello che gli sta alla destra», continuò il medico, «è il suo Cappellano, il quale mi fa una guerra accanita, spargendo nel contado che sono un eretico, perché mi rifiutai di fargli un certificato falso di malattia. Credo che fra loro non se la dicano molto per ragioni di nepotismo. Però non si lasciano mai; e l’occupazione del Cappellano, quando seguita il principale, è d’annacquargli i moccoli. A ogni primiera ammazzata, il Proposto, un “Giuraddio !” e il Cappellano un “Bacco”. E così vanno avanti, salvando l’apparenza e l’anima; ma il Proposto qualche volta la crede una umiliazione e se n’ha per male, e lo rimprovera; e allora, nella stizza, i “perdii” gli scivolan giù come chicchi di corona sfilati; e il Cappellano coi suoi “bacco, bacco” ripara a tutto, impassibile alle minacce e pronto al martirio piuttosto che cedere. È il primo cacciatore di lepre dei dintorni e giuocatore di briscola da sfidare la piazza. I popolani l’adorano perché dice la messa in dieci minuti, confessa a maniche larghe, e a chi gli fa de’ soprusi, legnate da olio santo. Quel cosino magro dalla parte di qua è uno de’ così detti preti spiccioli; è un buon figliolo, povero in canna, che con una salute da far pietà s’arrabattta a tirarsi avanti con una sorella vecchia e due nipotini che educa e istruisce da sé, facendo da maestro, da zio e da babbo; e intanto s’aiuta con altri quattro o cinque scolarucci che può raccapezzare a una lira al mese, e campa non si sa come, mantenendosi, nella sua miseria, illibata la reputazione di cittadino onorato e di sacerdote esemplare. E quel che più monta, egli, rara avis, non invoca la maledizione di Dio sulla sua patria. In paese, come è facile a capirsi, o non se ne occupano o lo rammentano con disprezzo. Quell’altro è il fratello del sor Cosimo, che tu conosci. Ti dirò qualche cosa anche di lui; ma ora inginocchiamoci, perché siamo all’elevazione.» […]
(Renato Fucini, brano tratto da “Scampagnata”, in “Le veglie di Neri: paesi e figure della campagna Toscana”, 1882)