
[…] L’«Ite, missa est» interruppe il nostro colloquio. Il Proposto delle Sièpole lo annunziò a occhi chiusi, a giugulari iniettate e a gote livide sull’ultimo, sollevando la testa per trovare note di voce più poderose, in mezzo agli altri preti che stavano reverenti ai suoi fianchi. E se lo patullò per due minuti buoni, finché dopo un i… i… i… i… che pareva non dovesse finir più, rotolò sfiatato: «issa est».
Il sagrestano s’avventò collo spegnitoio alle candele; i preti allicciarono verso il desinare, e il popolo, dopo un breve raccoglimento, s’affollò alla porta per uscire.
Quando fummo sotto il porticato, il medico mi lasciò subito per fuggire l’incontro de’ suoi padroni, non senza avermi prima ripetuto caldissimamente che dopo desinare fossi andato da lui, che mi avrebbe accompagnato alla stazione e che aveva cose importantissime da dirmi.
Il sor Cosimo venne correndo a ritrovarmi, accompagnato da varie persone alle quali mi presentò, dandomi di gran manate sulle spalle, scansando il lei e dicendomi un monte di villanie per dare a credere che con me ci aveva confidenza.
Aspettammo un momento il Cappellano e le donne, e tutti insieme ci avviammo, come disse il sor Cosimo e ripeté la signora Flavia, a far penitenza.
Al momento d’andare a tavola il sor Cosimo mi disse, dandomi uno strizzone:
«Oggi si deve stare allegri ! Bravo, bravo, bravo !».
La signora Flavia mi ripeté per la sesta volta che avrei fatto penitenza, perché non avevano alterato per nulla il solito desinare delle altre domeniche.
«Dio mio !…», esclamai, fingendomi di esser mortificato, ma in realtà perché non ne potevo più di ogni cosa. E con la signorina Olimpia che ci precedeva sculettando, dopo avermi presentato un’occhiatina ladra e un mazzetto di gelsomini, entrammo nel salotto da pranzo, tutto parato per le grandi occasioni, in un ambiente odoroso di biancheria, levata allora allora di fra le mele cotogne e lo spigo.
«Ecco qui», ribatté il sor Cosimo, «noi non si fa complimenti; un po’ di minestra, un po’ di lessuccio, du’ altri gingilli come il solito, e s’è finito.» Si segnò e recitò il Benedicite.
Il bambino, che appena entrato in salotto era rimasto a bocca aperta guardandosi d’intorno, quando ebbe visto i preparativi tutti e specialmente una tavola in disparte tutta piena di crostini, dolci e bottiglie, non poté più reggere, e, rivolgendosi a me, urlò battendo le mani sulla tavola:
«O Dio, bene ! Guardate, oggi che ci siete voi, quanta bella roba c’è !».
Il signor Cosimo gli lasciò andare un calcio di sotto la tavola, che per fortuna non lo prese; ma fra i commensali si sparse istantaneamente un silenzio glaciale.
Le donne sospirarono; gli uomini rimasero a guardare il bambino con due occhi da incenerirlo, e io mi voltai al signor Cosimo a domandargli che cosa il bambino aveva detto. Il mio stratagemma riuscì perfettamente, e tutte le fisionomie erano già rasserenate quando comparve Gostino in maniche di camicia a mettere in tavola la zuppiera. […]
(Renato Fucini, brano tratto da “Scampagnata”, in “Le veglie di Neri: paesi e figure della campagna Toscana”, 1882)
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