
[…] Poi venne l’insalata coll’ova sode, poi le frutta, poi i dolci, poi altre bottiglie, eppoi… perdio ! fu finita. Ma credo che anche i miei vincitori avessero poco da cantar vittoria. Era uno sbracalìo generale di calzoni, di panciotti e di fascette: sbuffate da tutte le parti e ceffi infiammati e occhi rossi, tranne la signora Olimpia, la quale, vivendo tutta di spirito, s’era mantenuta inalterata, posando sempre in attitudini soavi e mostrando qualche volta, nei momenti più serî, una gentile pietà per la mia posizione.
E i nostri discorsi durante il pranzo ? Nulla !
Fu una lotta sorda e continua di offerte, di repulse e di nuove offerte; di «pigli» e di «grazie»; di «lei non mangia, lei non beve», e di risa sgangherate tutte le volte che avevano inventato un nuovo tranello per farmi scoppiare.
«Le poesie, Olimpia, le poesie !», urlò il signor Cosimo alla sorella, «il sonetto del Calamai !»
Io mi volsi subito alla signora Olimpia per leggerle negli occhi la gravità di quello che mi minacciava; e la vidi atteggiata a una espressione che mi fece pena. La signora Flavia mi destò lo stesso sentimento e perfino nella faccia del bambino mi parve di scorgere qualche cosa che sapeva di paura. Guardavano tutti il signor Cosimo in aria pietosamente interrogativa, eppoi si volgevano in un punto verso il fondo della tavola, alla sua destra.
In quel tempo il signor Cosimo chiamò con voce alterata Gostino, il quale comparve con due contadini, che, agguantato don Paolo sotto le braccia, lo trascinarono quasi di peso fuori della stanza. Io m’alzai di scatto per prestarmi in aiuto; ma il sor Cosimo mi trattenne dicendomi in aria mista di dolore e d’umiliazione che non mi spaventassi perché era cosa consueta.
«Fra un paio d’ore non è altro. Insulti di core. Quando lui s’aggrava un po’ di cibo…»
«Ma perché non cerca di moderarsi ?»
Il sor Cosimo si rinsaccò nelle spalle.
«E gli accade spesso ?», domandai.
«Tutti i giorni, povero zio !», mi rispose la signora Olimpia. «Ah ! è un grand’incomodo quello !»
«E il medico che dice ?»
«Ah !», esclamò il sor Cosimo. «Giusto ! lei lo conosce quel… quel… Il medico ride, glielo dico io quel che dice il medico: il medico ride; e quando si mandò a chiamare la seconda volta per una di queste solite mancanze, dopo che gli ho fatto avere io la condotta, io capisce ? io gliel’ho fatta avere ! ebbe l’audacità di dire a quel pover’omo: “Cappellano, un’altra volta l’annacqui”. Ha capito cosa dice il medico ? Ma in casa mia non ci ha messo più piede, e spero bene… eh, Flavia ?»
Gostino venne a dire qualche cosa nell’orecchio al padrone, il quale gli rispose indispettito che ci buttasse un po’ di segatura, che ci ripulisse subito e la facesse finita.
«Ooooh ! allora allegri, perché tanto non è nulla, Flavia, il caffè dove ce lo dài ? qui o nell’orto ?»
«Lasceremo decidere al signore.»
«Nell’orto, nell’orto !», dissi subito io, desideroso d’uscire da quelle strette e di godermi una boccata d’aria autunnale, tanto più che, a maggior contrasto col mio compassionevole stato di prigioniero, era una giornata incantevole. E da due ore invidiavo i fringuelli del paretaio, che si sentivano nel poggio di faccia tirare i loro versi boscherecci, e le lodole di passo che trillando si allontanavano giù nella caligine del piano dalla parte di mezzogiorno.
[…]
(Renato Fucini, brano tratto da “Scampagnata”, in “Le veglie di Neri: paesi e figure della campagna Toscana”, 1882)