
[…] Il Proposto delle Sièpole dette un’occhiata in tralice al Cappellano; e la signora Olimpia si preparava a dire il sospirato sonetto, quando s’affacciò all’uscio di casa don Paolo con gli abiti, le braccia, la bocca, gli occhi, i capelli e ogni cosa a grondaia, che si fermò sulla soglia a guardare fisso in terra.
Tutti gli andammo incontro a congratularci e a domandargli come stava…
«Còre, signori miei, còre.»
E si portava le mani alla parte sinistra del petto, strizzando gli occhi e accennando a bocca stravolta come una puntura che gli levava il respiro. E: «Alla tesa, Cosimo, hanno fatto altro ?».
«Altri cinque, don Paolo !», gridò Gostino di cucina.
«Cinque ? Dunque siamo arrivati a quindici oggi !», gridò don Paolo, rianimandosi come per incanto.
«Gostino, la mazza e il cappello.»
Il sor Cosimo ci fece d’occhio per dirci che bisognava andare alla tesa anche noi; un’attenzione che sarebbe stata graditissima al suo fratello. Ma i tre preti, adducendo che fra poco sarebbe sonato a vespro, si disimpegnarono bravamente, e andammo noi quattro: il sor Cosimo, il Segretario, l’assessore Stelloni e io, con gran compiacenza di don Paolo, il quale, precedendoci a sbalzelloni, mi raccontava che aveva fatto serbare un bel frusone maschio pel Priore di San Gaggio e che io gli avrei fatto il favore di portarglielo.
Ma il tempo passava, eran già sonate le tre; alle sei il treno partiva, dal paese alla stazione c’eran tre quarti d’ora e io volevo, volevo in tutti i modi stare un po’ col mio amico dottore, volevo sentire quel che aveva da dirmi, volevo rinfrescarmi l’anima nei ricordi della nostra giovinezza, volevo, sopra tutto, liberarmi da quella tortura che da qui avanti cominciava un po’ troppo a passare la parte.
«Io… signor Cosimo, mi scusi, ma ho necessità di arrivare in paese.»
«Le occorre qualche cosa ?»
«Sì… non ho più sigari.»
«Eccogliene mezzo !», mi disse a bruciapelo l’assessore Stelloni.
«Ma… avrei anche da scrivere una cartolina…»
«Badi», osservò il Segretario, «che ora l’appalto lo troverebbe chiuso.»
«Gliela do io, e la scrive ora quando si torna a casa», mi disse il sor Cosimo.
Era inutile !
Dirgli che avevo un appuntamento col medico era lo stesso che tirare uno schiaffo ai padroni di casa.
«Andiamo alla tesa. Ma se non dispiacesse a questi signori, vorrei far presto.»
«In una mezz’ora si va, si sta e si torna», disse don Paolo.
E su, come pecore dietro a lui che, rimettendosi a vista d’occhio dell’insulto di cuore, animato dalla sua passione, ci faceva sfiatare su per una viottola tutta sassi e ripida come un calvario.
[…]
(Renato Fucini, brano tratto da “Scampagnata”, in “Le veglie di Neri: paesi e figure della campagna Toscana”, 1882)