[…] La signora Flavia lo chiamò subito e gli disse qualche cosa all’orecchio.
Al fritto Gostino tornò con la cacciatora e col cappello in capo.
La signora Flavia lo chiamò di nuovo, e quando tornò col lesso comparve senza cappello. interrogando con gli occhi la padrona come per domandarle:
«Ora va bene ?».
La signora Flavia gli rispose di sì col capo; ma il signor Cosimo gli disse con un’altra occhiata che quelle cose avrebbe dovuto saperle da sé.
Gostino con una spallucciata gli fece capire che l’avevan seccato, e mi disse che pigliassi un altro po’ di pollo.
Questa gentilezza di Gostino fu il segnale dell’attacco.
Il vino aveva cominciato a rallegrare la comitiva e più che altri il sor Cosimo. Un contadino venne a dire che al paretaio del signor Cappellano avevano fatto un tiro di sette frusoni, per cui anch’egli rallegrò il suo umore, e mi trovai investito allora in pieno dalla spaventosa valanga delle cortesie di cotesta buona gente.
Gostino mise a sdrucciolo il piatto del pollo sul mio, e giù una frana di ciccia da sfamare un can da pagliaio, fatta rovinare dalla forchetta del sor Cosimo e da una gran manata del Cappellano nel gomito di Gostino.
«Non lo finisco.»
«Senza pane, permio !»
«È impossibile.»
«Dunque è segno che il pollo non gli piace !»
E giù, anche una targa di manzo.
E bisognò che mangiassi ogni cosa, tormentato a doppio dal pensiero che ancora non s’era a nulla !
Infatti cominciò subito la succulenta dinastia degli umidi. Sette ne comparvero ! Due di pollo; uno di vitella di latte; due di carne grossa; uno d’animelle, e l’ultimo di tacchino coi maccheroni… Scoppiavo !…
E bisognò assaggiarli tutti !… tutti !
Quello bisognò prenderlo perché era col cavol fiore, una primizia !
Quell’altro perché se no si sarebbe guastata la relazione; questo perché è con gli spinaci che ora sono una rarità; quest’altro perché ci ha fatto la salsa la signora Olimpia…
Dio signore ! non ne posso più.
E crepavo di ripienezza e di caldo, e, come se tutto il resto non bastasse, le mosche insistenti dell’autunno mi finivano di conciare impaniandomisi al sudore che mi colava a gore giù per le gote!…
E il sor Cosimo, sempre più feroce, m’assaliva con una cucchiaiata d’erba perché era roba leggiera, e il prete con una stiappa di ciccia che mi buttava nel piatto da lontano; e in quel tempo Gostino badava a predicarmi di dietro che non mangiavo nulla, e la signora Flavia a lamentarsi che non mi fosse piaciuto il desinare !
«Ecco l’arrosto ! ora siamo in fondo; coraggio !»
Ma coll’arrosto cominciarono le bottiglie.
Il prete n’agguantò per il collo una di vin santo, il sor Cosimo una d’aleatico e Gostino una di vermutte spumante.
[…]
(Renato Fucini, brano tratto da “Scampagnata”, in “Le veglie di Neri: paesi e figure della campagna Toscana”, 1882)