
[…] «Aspettate ! no… no… aspettate, Gostino !», gridavano le donne parandosi coi tovaglioli.
E il sor Cosimo, posato l’aleatico:
«Ah ! permio !», esclamò, «qua, qua, mi ricordo dell’altra volta. Guardi», volgendosi a me, «guardi che chiosa nel soffitto. Ora sentirà che lavoro è questo. Qua, qua, Gostino, la voglio stappare da me».
Il sor Cosimo in piedi, con la bottiglia spianata, cercava un posto nella stanza dove rivolgerne impunemente la bocca, ma non lo trovava. Su c’era il soffitto dipinto; giù la stoia nova; di faccia le donne che s’eran buttate il tovagliolo in capo e si tappavano gli orecchi con le dita; a destra il prete e la credenza bona…«Alla finestra, sor padrone !», gli gridò Gostino.
«Bravo Gostino !»
E andò alla finestra dove, dopo che ebbe lavorato un pezzo, adagio adagio e colla massima precauzione, si sentì a un tratto un gran:
«Giurammio ! o come mai ?…».
E per assicurarsi meglio continuò a mandare in su col dito pollice il tappo che finalmente cascò a piombo ai piedi del boia come la testa d’un decapitato.
«Un’altra, Gostino; subito !»
E quell’altra venne; ma appena tagliato lo spago, fu una catastrofe. Il vino schizzò via soffiando come un gatto arrabbiato; e il sor Cosimo che girava in tondo per scansare ogni cosa, infradiciò invece ogni cosa, fra i sagrati del Cappellano che aveva avuto una zaffata nella nuca e gli strepiti delle donne che s’eran ficcate col capo sotto la tovaglia.
«Un’altra, Gostino !»
«Cosimo, per carità !…», esclamaron le donne.
«Mi parete diventato un ragazzo !», brontolò don Paolo.
Ma il sor Cosimo ormai, visto compromesso il suo decoro di enologo premiato da se stesso alla mostra che fecero per la fiera anno di là, voleva andare in fondo, e ci arrivò finalmente con onore. Gostino portò una terza bottiglia, la quale lavorò stupendamente, e la pace fu ristabilita.
Ma la tempesta delle gentilezze si scatenò addosso più furibonda che mai dopo il buonumore suscitato nei miei aggressori dalla riuscita dell’ultima bottiglia. Mi trovai il piatto pieno a cupola di uccelli che mi piovevan da tutte le parti; e uno me ne tirò nel viso il bambino fra le risate dei parenti che restarono sorpresi dello spirito di quel ragazzo. E anche quelli mi toccò mangiarli !…
«Senza pane !»
«Sissignore; accidenti a’ fornai !», dissi ridendo in un certo modo che doveva parere che volessi mordere.
La signora Olimpia volle poi che accettassi da lei una stipaiola.
«Un uccellino di becco fine, signore», mi disse, «è tanto delicato !»
«Da lei, signorina, non posso ricusarlo.»
«È l’ultimo !» gridai nel fondo del petto, «sacrifichiamoci per uscirne.»
«Grazie, signorina; ma si accerti che faccio un gran sacrificio.»
«Gliene sarò riconoscente per tutta la vita.»
E guardò sorridendo dietro alle mie spalle.
Mi voltai e vidi il Cappellano che, branditi due bravieri per le zampe, rigido come la statua del Fato, me li affondava nella faccia, dicendomi freddo e arcigno:
«Questi non li rifiuterà di certo. Gli ho presi io stamani, e freschi e grassi così, lei a Firenze non li trova; o, se li trova, per meno di quattro palanche l’uno non glieli dànno».
Me li posò nel piatto e rimase a guardarmi con gli occhi stralunati da un accesso di simpatia avvantaggiata dall’ultimo bicchiere d’aleatico, che secondo me, cominciava a lavorare a vele gonfie.
[…]
(Renato Fucini, brano tratto da “Scampagnata”, in “Le veglie di Neri: paesi e figure della campagna Toscana”, 1882)