
[…] Al capanno accadde una scena violenta perché trovammo il tenditore addormentato. Si stette lì una mezz’ora senza prender nulla, in tempo che don Paolo, senza mai levar gli occhi dal finestrino e dicendo ogni tanto: «Zitti, ecco roba !», non si chetò mai a raccontarci sotto voce tutti gli importantissimi perfezionamenti che aveva introdotti nel suo paretaio, e finalmente, quando Dio volle, si venne via.
Ma non tornammo diritti a casa, perché il sor Cosimo volle farmi vedere la coltivazione nuova, eppoi il bosco disfatto; e di lì don Paolo volle passare dal paretaio vecchio per farmi fare il confronto con quello nuovo. Lo Stelloni, per quattro passi di più volle che arrivassimo in cima al poggio per farmi vedere di lassù la sua casa; e chi sa dove diavolo m’avrebbero menato, se le campane benedette non cominciavano a sonare a vespro fitte fitte.
E allora tutti giù a gran furia, perché senza il sor Cosimo e senza lo Stelloni, in coro non avrebbero neanche principiato. A casa bisognò ribere; le donne ci aspettavano già preparate; Gostino domandò per che ora doveva esser pronta la cavalla, e andammo al vespro a passo rinforzato perché s’era fatto tardi.
Nell’attraversare la piazza, in mezzo al gruppo dei miei ricattatori, avendo a braccetto la signora Olimpia, vidi da lontano il medico sulla farmacia, che mi faceva cenno come per domandarmi:
«O dunque ?».
Io gliene feci un altro come per rispondergli:
«Non so se mi spiego !».
Scosse la testa sorridendo e riprese la conversazione interrotta con un contadino che gli sedeva accanto.
In coro mi piantarono nel posto d’onore in mezzo al gruppo dei cantori, e lì sbercia che ti sbercio, e zaffate d’aglio stantìo, e urli a bruciapelo, che parevan legnate nelle tempie. E anch’io in mezzo a quegli energumeni, cominciai a boccheggiare dietro ai cantori, tanto per dare un po’ di soddisfazione ai contadini che a occhi sgranati, in giro in giro al leggìo, stavano a guardarmi senza batter ciglio, aspettandosi di certo da me qualche cosa di strepitoso come, in quella occasione, avrebbe dovuto fare un forestiero per bene. Ma ero fioco in verità, e anche il sor Cosimo mi tenne scusato quando rifiutai di entrare terzo con lui e lo Stelloni nelle antifone. E i miei ammiratori devono esser restati male sul serio allorché, stando sempre a guardarmi dopo che era finito ogni cosa, mi videro sfilare con gli altri in canonica, dove il Piovano volle per forza, se no se ne sarebbe avuto per male, che si pigliasse un dito d’aleatico.
Il Proposto delle Sièpole attaccò la briscola con tre contadini, e noi ci movemmo per venircene…
«A meno che», mi disse il sor Cosimo, piantandomisi in faccia a squadrarmi con occhi supplichevoli, «a meno che per una nottata, lei non voglia…».
«E’ impossibile !»
E lo dissi con tanta forza che dopo me ne rincrebbe, perché a questo rifiuto che gli tirai in faccia come un insulto, rimase lì mogio mogio senza alitare.
«Non credevo… d’averlo offeso… mi scusi.»
Povero diavolo ! aveva ragione. Gli feci due carezze scherzevoli, e mi ci volle poco a rimettergli l’animo in pace. Infatti, appena usciti sul cimitero, si fermò al primo banco di brigidini e volle per forza empirmi le tasche, ficcandoceli da sé a manate.
[…]
(Renato Fucini, brano tratto da “Scampagnata”, in “Le veglie di Neri: paesi e figure della campagna Toscana”, 1882)