
[…] L’ora si faceva tarda. Attraversando di nuovo la piazza, il dottore mi salutò accennandomi che ormai ci saremmo riveduti a Firenze e tirai avanti come un reo d’alto tradimento che di mezzo alla forza vede i parenti e gli amici che gli tendono addolorati le braccia, e non gli è concesso né un bacio né un abbraccio prima di lasciarsi forse per sempre. Mi voltai indietro e vidi da lontano l’amico che mi diceva: «Addio, addio !».
Gostino aveva già attaccato, e a quella vista mandai un sospiro di tale compiacenza che mi parve di sentirne subito i benefizi anche nel fisico. E veramente ne avevo bisogno perché ero in uno stato da far compassione. Non mi reggevo quasi più ritto da quel moto ozioso e continuo di tutta la giornata; non stavo bene di stomaco e la ragione si capisce; la testa mi bruciava e me la sentivo come impiombata. Oh ! casa mia, casa mia !…
Ma il sospiro m’ebbe a restare attraverso quando, nel tempo che m’accomodavo sul calesse la signora Flavia mi si accostò tranquilla tranquilla, e cominciò a dirmi, stando gli altri di casa immobili a sentire:
«Ecco, giacché lei è tanto garbato, vorrà farci un piacere. Guardi, qui gli ho fatto anche la noticina perché non s’abbia a scordare di nulla».
E lesse alla luce del crepuscolo:
«1° Portare da quell’occhialaio dal Canto alla Paglia gli occhiali della sora Amalia perché ci rimetta il vetro rotto… Gli ha in tasca Gostino e alla stazione glieli darà.
2° Quattro metri… o se no sette braccia… come crede meglio… di roba come quella del su’ vestito, e mandarla giovedì per il procaccia…».
«O della pania gliel’avete messo, Flavia ?»
«Ci ho messo tutto. Ora state zitto… per il procaccia che rimette subito fuori della porta San Frediano dove sopra c’è scritto: Rimessa e stallaggio.»
«O del vino ?», domandò il sor Cosimo.
«Eccolo qui subito:
3° Dire allo Scatizzi vinaio di Borgognissanti – lei lo conoscerà di certo – che se volesse un ‘altra barrocciata di quel vino, ora ci sarebbe».
«Ma dunque della pania e del frusone ve ne siete scordata!», disse impaziente don Paolo.
«Eccovi servito anche voi:
4° Tre libbre di pania da quello in quella traversa di via Calzaioli che va in Ghetto… Il pentolo l’avete messo in cassetta, Gostino ?».
«Sissignora; ma si spiccino, se no si fa tardi.»
«5° Un frusone da portarsi al Priore di San Gaggio. L’avete preso, Gostino ?»
«Padron Paolo, sì. È lì sotto legato alla sala.»
«E me lo saluti, sa ?», mi disse don Paolo; «e glielo dica che io n’ho presi quindici oggi, e che mi mandi a dire che cosa fanno a quelle tese laggiù.»
«E qui», disse la signora Flavia, accennandomi un fagotto voluminoso dietro al calesse, «qui gli ci ho messo un po’ d’insalata di campo, che lei ha detto dianzi che anche a casa sua gli piaceva tanto.»
«Ma io… veramente… Grazie, signora Flavia… grazie, signori…»
«E questo», accostandomisi la signorina Olimpia, «questo vorrà tenerlo per mio ricordo.»
E mi consegnò un foglio piegato in quattro, stringendomi con tre scosse la mano, e:
«Buon viaggio !…».
«Salute, salute, signori!…»
«Arrivederlo.»
«Buon viaggio.»
«Si ricordi di noi.»
«Ci compatisca.»
«Torni presto…»
«Salute, signori, salute !»
Gostino dette un pizzocotto alla cavalla, e via di galoppo.
«Aaaah ! Come va, Gostino ?»
«Come vòl che vada ? Dieci lire al mese, eppoi vorrebbano anco la pelle, Dio der Cielo !»
«Bella serata !»
«Il tempo è bono, sissignore.»
Appena fuori del paese, detti un’occhiata al ricordo della signorina Olimpia, e lasciai libero il petto a una di quelle risate capaci di rimettere a nuovo un cristiano. Era l’autografo del sonetto di quando vestirono abate il figliolo del Calamai.
(Renato Fucini, brano tratto da “Scampagnata”, in “Le veglie di Neri: paesi e figure della campagna Toscana”, 1882)